3.12.10

Venerdì 3 dicembre: SERATA MONICELLI A CINEMAFUTURA


VENERDI 3 DICEMBRE ore 21

La grande guerra di Mario Monicelli |Italia 1959 |b/n|140’

La guerra 1914-18 attraverso le vicende di due “memorabili” fanti. Leone d'oro a Venezia e due Nastri d’argento.


a seguire

"buon compleanno Monicelli" - documentario rai - Istituto Luce che ripercorre la vita e la filmografia del regista

"risate di gioia", 1960 - b/n (con toto' e anna magnani) OPPURE "speriamo che sia femmina", 1986


(nell'ordine scelto dal pubblico)


avevamo gia' in programma per la rassegna AVANTI POPOLO uno dei capolavori del Maestro appena scomparso...cosi' abbiamo deciso di rendergli omaggio con una serata piu' ampia



L'ultima lezione

La speranza è una trappola inventata da chi comanda, ci vorrebbe la rivoluzione - Mario Monicelli

30 / 11 / 2010

A ricordare l’uomo di cinema Mario Monicelli ci penseranno i suoi film. Decine di lungometraggi dopo il primo a basso costo: “I ragazzi della via Paal”, premiato nel ’35 alla neonata Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, appena ventenne. Qualcuno grande, qualcuno non riuscito, qualcuno grandissimo. Come i due che alla fine degli anni ’50 hanno influenzato i cineasti di tutto il mondo: “I soliti ignoti” e “La grande guerra”. La geniale invenzione del gramelot di Brancaleone da Norcia. Altri che hanno saputo meglio rappresentare la trasformazione di questo paese nei difficili anni ’70: “Romanzo popolare”, “Un borghese piccolo piccolo”. Altri ancora che segnano tutte le tappe della parabola di quella che è stata classificata come Commedia all’italiana, ma che per lui era solo commedia, genere per il quale l’appellativo di Maestro gli suonava un po’ fastidioso. Ma è stato lui il primo a chiudere tragicamente un film “da ridere”, a coniugare la leggerezza divertita con le più amare riflessioni sul senso della vita, a fondere cialtronaggine ed eroismo, a suggerire che l’epica può essere amorale e che il valore si può trovare anche nei perdenti. Perciò la cosa migliore che possiamo fare è andarceli a vedere. O rivedere.

L’uomo Mario Monicelli si farà ricordare invece come un signore di 95 anni, elegante, asciutto e in buona forma fisica, malato terminale di un tumore alla prostata, che in una sera di pioggia apre il balcone e si lancia dal quinto piano dell’ospedale dove è ricoverato. Detto e fatto. “Se dovessi essere costretto a una vita che non è vita la farei finita anch’io”. Chapeau. Mentre le armate degli integralisti pro-vita affilano le armi per rispondere alla storia d’amore di Piergiorgio e Mina Welby, Monicelli scavalca tutto e tutti, balcone compreso, e ci spiega come si fa. Senza parole, senza retorica, senza invocare protocolli amministrativi, con la schiena dritta come sempre e fino all’ultimo. Un gesto che solo i superficiali possono definire disperato. Possiamo amare o meno il suo cinema, chi vuole può trovarlo datato o metterlo a improbabile confronto con la materia rutilante che riempie gli schermi del nuovo millennio. Ma l’uomo era questo. Un finto cinico animato da grande curiosità verso la vita, laico, libertario, rigoroso, antifascista. Militante. Dopo le giornate di Genova G8 2001 fu tra i primi a mettersi a disposizione della difesa dei manifestanti sotto processo con la propria testimonianza diretta e i filmati girati sul campo alla bella età di 85 anni. Lucidissimo nel definire le prove tecniche di regime cui aveva assistito. Autentico e senza sconti nell’indignazione e nella denuncia di uno dei capitoli più infami della nostra storia recente.

Alle stesso modo fino all’ultimo ha difeso pubblicamente il cinema e il teatro dagli attacchi che questa classe politica di guastatori sta portando avanti, badando bene a ricordare sempre che è la cultura tutta a essere sotto attacco, ribadendo che la cultura nasce e trova linfa vitale principalmente tra i giovani. Generazione verso la quale si sentiva e si manifestava complice, solidale, mai paternalista o in posizione di superiorità. Non limitandosi a dichiarazioni e interviste talvolta disturbanti fino ai confini della provocazione, ma essendo presente, partecipando a incontri e manifestazioni. Scendendo ancora in strada. Senza timore di scontrarsi o rendersi antipatico quando lo riteneva necessario. Un uomo che aveva rifiutato la Legion d’onore perché non gli interessava, che a ottant’anni compiuti da un pezzo era tornato a vivere da solo come uno studente. Che per la sua ultima lezione ha scelto un balcone del Policlinico, senza proclami, senza polemiche, con grande dignità. Un uomo che - non posso fare a meno di ricordarlo - dopo essere venuto a presentare il suo ultimo film “Le rose del deserto” (una lavorazione durissima in Africa, affrontata a novant’anni) dopo una cena passata a discutere di tutto, all’oste che all’una di notte chiedeva se gradiva una grappa rispondeva no grazie, la grappa mi è un po’ pesante, non c’è una vodka, bianca secca e ghiacciata? Un mito anche in questo. Addio Maestro.



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