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No Bush/No War Day
La visita di
Bush in Italia, all’indomani del
G8 di Rostok, riapre vecchi interrogativi e ripropone in tutta evidenza il tema della guerra globale permanente e dei nuovi scenari che si sono aperti o che si andranno schiudendo in questi giorni.
Oggi l’esperienza della gestione unilaterale dell’ordine globale ad opera degli Stati Uniti è a un bivio cruciale.
Finora l’unilateralismo bellico, intrapreso dopo la formulazione della dottrina americana della guerra preventiva del 20 settembre 2002 (che prevedeva tra l’altro la possibilità per gli USA di perseguire i propri nemici in qualsiasi territorio si trovino, la costruzione unilaterale dello scudo e la denuncia dei trattati di reciprocità sulle armi nucleari), ha contribuito enormemente a quel processo di gerarchizzazione dell’assetto imperiale e ripartizione dei poteri globali sotto l’egida degli Stati Uniti, con conseguente periferizzazione del ruolo politico dell’Europa, attacco ai rivali commerciali (come la Cina), controllo delle risorse energetiche mondiali e, dopo la dismissione di fatto del diritto internazionale, la costruzione di un ONU del tutto allineata agli obiettivi di guerra americani.
Tuttavia, l’altro obiettivo che ci si riproponeva, il ruolo di garante del mercato mondiale e dei suoi equilibri, vale a dire più precisamente il ruolo ordinativo della guerra, rimane oggi ancora distante dall’essere perseguito.
La crescita delle resistenze, in Iraq come in Afghanistan, la difficoltà, anche solo formale, di continuare a sostenere che con la guerra si sia esportata la democrazia in Iraq, i focolai di rivolta che accendono ancor più la già evidente crisi mediorientale (Palestina, Libano ...), mettono oggi seriamente in dubbio la capacità americana di perseguire sul piano della gestione unilaterale della guerra.
Oggi il proliferare dell’insicurezza dovuto all’aumento del rischio di crisi segna un sostanziale fallimento delle politiche militari con cui è stata finora condotta la guerra globale permanente e chiama in causa nuovi soggetti e attori, nel tentativo di rinnovare e consolidare la legittimazione di operazioni di guerra che non possono più trovare nel perseverante unilateralismo un principio di giustificazione.
Se a questo aggiungiamo l’azione corrosiva finora svolta dal movimento no war in tutto il mondo, che ha sancito una evidente estraneità delle moltitudini mondiali agli interessi economici e politici raccolti attorno alle pratiche della guerra globale, ma anche le resistenze, giocate su un piano di difficile equilibrio politico, messe in atto da altri poteri globali contro l’unilateralismo americano, il quadro che ne discende è di evidente crisi della leadership globale degli Stati Uniti.
D’altronde non poteva essere diversamente, considerata l’impossibile pretesa da parte degli USA di governare unilateralmente una realtà globale altamente complessa e instabile.
E’ sul crinale espresso da questa crisi, che si torna a parlare, oggi, di una ripresa dell’azione globale concertata tra i diversi poteri e della necessità di nuovi strumenti di legittimazione globale, a cui il governo Prodi sembra voler contribuire con particolare enfasi, immaginando un nuovo ruolo per il nostro paese sullo scenario internazionale.
Mentre con il governo Berlusconi la partecipazione italiana alle operazioni di guerra è stata sempre ispirata a una sostanziale subalternità nei confronti degli USA, anzi l’intervento italiano mirava a dimostrare, nei fatti, la fedele alleanza del nostro paese agli Stati Uniti, il governo di centro sinistra, pur senza dismettere l’atteggiamento interventista finora osservato, ha via via tentato una parziale autonomizzazione dall’ "alleato" americano, in qualche caso tentando di giocare un ruolo che permettesse qualche tratto di distinzione.
La missione di una forza internazionale in Libano, guidata dal contingente italiano, segna forse il tratto distintivo di questo rinnovato ruolo internazionale tenuto dal nostro paese e chiarisce in maniera inequivoca quali sono le strategie che la animano.
Del resto lo stesso D’Alema qualche giorno dopo la missione in Libano, sulle colonne dell’Espresso ha chiarito inequivocabilmente il senso di questa missione: "le differenze sono enormi. Il quadro è totalmente diverso. Ci andiamo coi caschi blu, nel rispetto del mandato costituzionale e per garantire la pace. La condizione della pace è la presenza della forza dell’Onu. Più di così...", osservando compiaciuto che tutto questo contribuisce a un ripensamento, ammesso dalla stessa Condoleezza Rice, della dottrina della guerra preventiva e dell’unilateralismo americano.
Analogamente anche per quanto riguarda l’intervento italiano in Afghanistan: da una parte il governo Prodi ha strappato un incremento della spesa e dell’impegno militare nella regione, per consolidare l’intervento armato a fianco degli alleati USA; d’altra parte però sta tentando una iniziativa autonoma e parallela rispetto all’uso delle armi, sostenendo il piano di riconciliazione nazionale del presidente afghano Hamid Karzai. Anche in questo caso la proposta del governo italiano va nella direzione di imprimere una svolta multilaterale alla guerra in Afghanistan, come ha precisato D’Alema invitando anche il presidente del Pakistan a pronunciarsi nell’imminente riunione del G8 di Postdam a favore di un piano di stabilità in Afghanistan che "e’ impossible senza una cooperazione regionale non solo per la sicurezza ma anche nel campo economico e dello sviluppo sociale".
Sia chiaro: non ci troviamo di fronte a nessuna modifica sostanziale del quadro ordinativo definito dalla teoria della guerra globale permanente. Non si tratta di uscire dal paradigma della guerra, dalla sua capacità di costituire l’ordine globale e dalla sua pervasività a tutte le dimensioni della vita.
Quello che si sta tentando è di iscrivere altri poteri globali (tra cui in primo luogo un rinnovato impegno dell’Europa) nella gestione diretta delle operazioni di guerra, di imporre una forma multilaterale al governo globale.
Del resto questo rinnovato impegno dell’Italia sul piano internazionale (dentro il quale devono essere iscritte anche le recenti dichiarazioni di Prodi sull’Italia come settima potenza militare mondiale), non poteva che essere gestito proprio da una governo di centro-sinistra, in grado proporre nuovi strumenti retorici e nuove tecniche di persuasione necessari per rinnovare un consenso sociale attorno alla guerra globale al tempo della sua gestione multilaterale.
L’esperienza della guerra "umanitaria" in Kossovo costituisce da questo punto di vista un importante riferimento per imporre questa svolta multilaterale della guerra: il riferimento "umanitario" alle azioni belliche e la loro ricollocazione dentro un quadro internazionale definito dall’azione concertata di diversi attori globali, restituisce alla guerra multilaterale un principio di legittimazione finora mancato all’unilateralismo americano.
Inoltre il governo di centro sinistra può contare su una pacificazione dell’opposizione interna alla guerra, alla cui costruzione è deputata la sinistra cosiddetta radicale che, nell’epoca della crisi irreversibile della rappresentanza politica, tenta una impossibile iscrizione delle ragioni dei movimenti dentro i diktat imposti dall’azione istituzionale. Di fronte a questo quadro politico, il problema che dovremmo porci è come costruire reti di resistenza all’altezza di questo mutamento nelle forme di gestione del governo globale.
La visita di Bush in Italia il 9 giugno può essere senz’altro l’occasione per ricostruire l’opposizione alla guerra globale. Dovremmo tuttavia essere in grado di trasformare quella giornata in una mobilitazione capace di affrontare l’insieme dei nodi e delle insidie che nasconde il nuovo corso multilaterale della guerra.
Da questo punto di vista, se uno degli obiettivi principali che si propone il governo di centro sinistra è il recupero di consenso attorno all’iniziativa bellica, irretendo anche lo stesso pacifismo dentro il sistema di ricatti e compromessi definiti dalla dinamica istituzionale, un nostro obiettivo dovrebbe essere quello di approfondire ancor più la crisi della rappresentanza politica affermando, positivamente, l’autonomia dei movimenti.
Nel momento in cui il centro sinistra si candida alla gestione della forma multilaterale del governo globale, senza uscire dalla concezione della guerra ordinatrice, anzi proponendo quel surplus rappresentato dalla capacità di tacitazione del dissenso, diventa fondamentale costruire un’opposizione politica che iscriva nella propria agenda in primo luogo la critica della gestione multiculturale della guerra e dunque a questo governo di centro sinistra e alle sue propaggini rappresentate dalla sinistra cosiddetta radicale.
E che lo faccia abbandonando posizioni meramente astratte, per costruire invece la propria critica a partire dalle mobilitazioni che oggi attorno e contro il tema della guerra si danno, a partire dalla difesa di quel comune che le moltitudini di Vicenza ad esempio rivendicano come patrimonio contro le servitù militari.
Cso Bruno - trento